Posted: 09 Jan 2013 05:00 AM PST
2. BOARDWALK THE WIRE: HBO DI QUELLI POTENTI
È aprile. Forum des Images, sala grande da 500 posti. TERENCE WINTER è seduto, comodo, accanto a lui un bicchiere con una bevanda scura, potrebbe essere cocacola o whisky, fa lo stesso. Ha questa risata sincera, d’onestà, verrebbe da credere, oro colato, a tutto quello che dice, per come lo dice. Un po’ come Vince Gilligan l’anno scorso, ce l’hanno in comune quelli bravi si vede. Terence faceva cose di avvocati, poi un giorno, aveva 29 anni, molla tutto e si mette in testa di lavorare in tv: Willy il principe di Bel-Air, Flipper, Xena principessa guerriera. Questi gli esordi di Terence Winter. “David Chase ha saputo guardare al di là del curriculum”. Già, com’è David Chase? “Intimidisce. Lui e Matt Weiner mi mettevano in soggezione, erano gli intellettuali, io no”. Stiamo davvero parlando dei Soprano? Winter dice che una volta non riusciva a scrivere il suo episodio, la famosa pagina bianca. Si ridusse all’ultimo, buttandolo d’impulso in due drammatici giorni: “Mi dicono sia uno dei più riusciti”. Sorride. Terence, che showrunner sei? “C’è questa leggenda che lo showrunner debba occuparsi di tutto. Io no, io delego moltissimo. Ci sono cose che non so fare e che non voglio fare (sorride), tipo i costumi (ride, ridiamo). Matt Weiner invece si occupa di tutto, veramente di tutto. È proprio su un altro pianeta” (ride, ridiamo). Poi parla del prossimo progetto con Mick Jagger, della telefonata in cui gli dissero “C’è un certo Martin Scorsese che vuole lavorare con te”, di quella volta in cui dovette dirgli che aveva fatto un errore in una scena (“Non sapevo come fare, cioè, come fai a dire a Scorsese che ha sbagliato?”). Come ti trovi con Hbo? “I migliori. Non vorrei lavorare per nessun altro”. Come non credergli. Qualche giorno dopo, stessa sala. Sono in seconda fila. Davanti a me un posto vuoto, con su scritto Riservato DOMINIC WEST. Lo chiamano, entra, una specie di rockstar in giacca e camicia, stempiato (molto), visto da vicino somiglianza spaventosa con il cantante Biagio Antonacci, del malaise sul viso (di più: pare scocciato). Prima domanda: “Da Shakespeare a The Wire: che si prova ad aver fatto parte della serie che ha cambiato la storia?”. Esita, si sforza di ricordare, è passato molto tempo. Sembra stia parlando di un’altra persona. “Non ero la prima scelta per fare McNulty. Un altro attore ha rinunciato perché non voleva vivere a Baltimora”. Dice che anche lui era indeciso se accettare o meno la parte (l’impegno previsto era di varie stagioni. Incontrò Malkovic che gli disse “Ma sei pazzo a fare cinque anni di tv?”), poi vabbé, andò come andò. Hbo all’inizio era pessimista, senza la testardaggine di David Simon (“A proposito, fa un sacco di scherzi sul set”: sgomento nel pubblico) la serie non sarebbe andata avanti. Seguono aneddoti e chicche (la scena del ‘fuck’ nella prima stagione, l’ipotesi di dirigere un episodio di Treme poi sfumata perché impegnato sul set di The Hour) e alla fine Dominic si scatena: percula i francesi, percula George Lucas, ammette di aver fatto film di merda, compreso quello con le Spice Girls: “Interpretavo un fotografo. Sono andato sul set che non me ne fregava niente, venivo da due notti di bagordi. Nelle pause dormivo sul divano, mentre le Spice Girls provavano le battute”. Poi inizia a imitare le Spice, una a una, accenti inglesi inclusi, e non ce n’è più per nessuno. Viene giù la platea. Dominic West, que du bonheur. (INTERVALLO: Mai, après mai, dopo quel maggio che si fece capodanno e conto alla rovescia, a far tremare Solférino e Bastille, e poi Roger Federer che mi passa a due metri di distanza al Roland Garros, la Fête de la musique a Matignon io, il primo ministro Jean-Marc Ayrault e i Pony Pony Run Run, niente di più Bon bah, c’est quoi ça?) Ottobre. Sui muri della sala ci sono dei fogli con scritte in font 72 che incitano a livetwittare usando l’hashtag #DAVIDSIMON. Dettaglio: in sala non c’è campo. Fail. Epic fail (David Simon per me non è The Wire, cioè è anche The Wire, ma per me David Simon è Treme. Io sono qua per Treme, Treme è bellezza mai troppa, per esempio Melissa Leo, per esempio Wendell Pierce, per esempio John Goodman e quella scena nella prima stagione. Treme è Treme). Scarpe da tennis, capellino in testa e poi tra le mani, quasi a coperta di Linus, eau Cristalline a sorsate, David Simon è qui per promuovere l’uscita francese di un suo vecchio libro: Baltimore. Ma andiamo con ordine. Homicide. “È successo tutto per caso. Ho scritto un episodio di prova e ho finito per fare un mestiere che non conoscevo. Devo molto a Tom Fontana. Mi ha spiegato come fare, da dove cominciare”. The Corner. “All’inizio era un libro, sulle persone, sulla gente, non sulla polizia. Non pensavo potesse andare in tv. Poi Tom mi ha mostrato un minipilot di venti minuti di Oz e mi sono detto che forse invece si poteva”. The Wire. “L’ambizione era fare qualcosa che non assomigliasse a nient’altro già visto in passato. Ho presentato un riassuntino dei primi episodi, è andata bene, sopratutto grazie alle critiche positive. Hbo in realtà voleva chiudere dopo tre stagioni”. E così racconta l’epopea della serie che fece la storia, il suo imparare giorno per giorno a fare lo showrunner, sintesi tra network e scrittori e tutto il resto (David Simon ha questa specie di ostinazione nella parola, proprio, che lo porta a spiegare, a dilungarsi, a stancarsi, a entrare nei dettagli di quello che sta dicendo. A noi). Generation Kill. “Un lavoro onesto. Parla dei marines in guerra. Ma era un periodo in cui nessuno voleva vedere la guerra alla tv. Oggi invece cominciano a vendersi di più i dvd, si vede che il passaparola funziona”. Treme. “avevo voglia di fare qualcosa di meno cupo, ma che mantenesse la qualità degli altri miei lavori” (bravo David, ci sei riuscito). E di Wendell Pierce che ci dici? ”Se faccio un film su Mussolini o una commedia irlandese chiamo comunque lui” (qua finalmente sorride, e anche noi). E dopo Treme? “Non lo so. HBO si sta accorgendo che nessuno guarda le mie serie. Forse torno a fare il giornalista” (risate, applausi, angoscia). No, sul serio, dai. “Domani torno negli Usa. Ho passato cinque giorni a parlare di me stesso. Sono stanco. Quando i generali romani tornavano a Roma coi prigionieri, un servitore li accoglieva dicendo loro: Non sei un Dio. Ecco, tornando a casa mia moglie farà lo stesso con me”.
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2012 à Paris: ieri Tim Burton e Stefano Savona, domani l’ultima parte della serie con Haneke, Mungiu e Varda. |
Posted: 09 Jan 2013 01:00 AM PST
(Sì, quel Locke e quella Juliet) – Potevo non rilanciare questo video pubblicato ieri da College Humour e che, con la scusa del game, ci fa tornare indietro di una novina d’anni (2004!) e ci fa rispolverare le mensole dei nostri ricordi? Ecco, circoletto rosso per i ri-arrangiamenti giacchiniani e per il commercial break. ¡Que viva Lost!
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