lunedì 2 settembre 2013
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Supertele 3: Miss Italia e Mission, le scelte civiche della Rai Posted: 02 Sep 2013 03:50 AM PDT
Il livello di maturità di una persona, di una comunità sociale o di un gruppo di tortorelle ammaestrate, si misura – anche – dalle polemiche che è capace di scatenare, da come gestisce i conflitti che ne derivano e, soprattutto, dalle risoluzioni che porta a termine.
Questa estate, mentre la televisione se ne stava più o meno placida in vacanza con qualche inedito in più del solito, l’attenzione s’è desta grazie a due polemiche intorno alla trasmissione del concorso di Miss Italia e a un programma, Mission, ancora non andato in onda. Coinvolti il servizio pubblico nella persona di Raiuno e, curiosamente, la presidente della Camera, Laura Boldrini, sempre più rappresentante d’ufficio e d’istituto di una sinistra idéologique che si attacca alle Questioni Di Principio e le scuote finché dall’albero non cadono più frutti ma solo polvere e percentuali più o meno variabili di pressappochismo televisivo.
Stavolta però non solo la sinistra “ah no guarda, io in casa non ho la televisione da dieci anni”. Una trasversalità moralista e satolla prima ancora di mettersi a tavola: dai critici più o meno noti rotolando fino a valle, cioè i commentatori nome-cognome dell’Internet, nuova orda barbarica intrisa di premier degré e di orgoglio (“dico cose scomode che nessuno ha il coraggio di dire e ci metto pure la faccia. O la foto profilo di Facebook”). Tutti accomunati da una fratellanza anti-televisiva che andrebbe rintuzzata punto per punto, partendo dalle basi, per esempio da un bell’abecedario etimologico, se esistesse. R come reality.
Il reality in Italia non esiste più. Tornerà, forse, nel 2014, il Grande Fratello, ma per il resto il reality puro non esiste più. È un genere che ha dato quello che doveva dare e ora è lì, sfinito, nell’angolo, come la ruota sgonfia di una bici che qualcuno si ostina a non buttare, tanto prima o poi. Tutto quello che è venuto dopo quei due macro contenitori – La Casa e l’Isola – non c’entra più nulla con il reality, così come l’abbiamo conosciuto e così come si è imposto nella scorsa decade. È venuta meno la diretta, dunque la costruzione della realtà pas-à-pas, ed è venuta meno l’osservazione partecipante del pubblico che una volta era coinvolto, in divenire, e ora invece è tornato spettatore di qualcosa che è già successo. Un pubblico che ha accettato, senza fiatare, di tornare alla finestra. O allo specchio. Non è reality Masterchef, non è reality Pechino Express, non è reality, stando ai dati in nostro possesso, il futuribile Mission. Ma è bastato, come spesso avviene in Italia, che il primo della fila usasse il termine “reality” perché tutti seguissero a ruota, ditino bello teso: reality, Raiuno, dolore, bambini, africani, Albano. Che schifo, che schifo tutto.
L’estate si arroventava in close-up sempre più osceni – la decadance, l’agibilità – e intanto sullo sfondo, in ultimo piano, si toccava l’aberrazione con la proposta di un politico di “visionare in anticipo le cassette di questo intollerabile attacco alla, vabbè ci siamo capiti”. Roba che, se fosse successo non dico in Russia ma proprio a Palazzo Grazioli, Conchita De Gregorio avrebbe già tirato fuori una serie di cinque pezzi “solo per abbonati” tasto destro seleziona – tasto destro copia – tasto destro incolla. E invece niente. Perché la parola “reality”, vessillo unificante a tutte le altitudini, riesce ancora a far indignare i critici e non solo, ed è ancora considerato l’alfa e l’omega di tutti i mali, anche non televisivi, malgrado una decadenza ormai certificata a livello planetario.
Come se non bastasse il reality, la polemica ha investito anche la scelta dei forse- partecipanti al forse-programma Mission. Albano, Emanuele Filiberto di Savoia, Michele Cucuzza e Paola Barale (e per fortuna Elisabetta Canalis è rimasta a passeggiare a Miami con Maccio Capatonda): questa gente “non è compatibile con il servizio pubblico” (se avessero mandato i neo senatori a vita Elena Cattaneo e Carlo Rubbia dunque non avremmo avuto questo baccano?). Il solito tic del particolare per il tutto. Una delle poche grosse novità della scorsa stagione è stata Pechino Pexpress. Grazie a Emanuele Filiberto o malgrado Emanuele Filiberto? Il successo di un’idea, di un progetto, di una messa in onda non dipende tanto da questo o quello – ci possono essere i valori aggiunti, o tolti – ma da una serie di fattori tremendamente più complicati di così. Il servizio pubblico italiano, che molti vorrebbero come la BBC (che non hanno mai visto) è quello che è, pubblicità e Albano Carrisi compresi, e come tale andrebbe giudicato: non per quello che “secondo me Raiuno dovrebbe fare”, ma per esempio notando i primi, timidi tentativi di svecchiare linguaggi e grammatiche della prima serata.
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Senza Miss Italia noi ci saremmo persi un’attrice e Boosta una fidanzata
Potevano tranquillamente risolvere la questione dicendo: Ok, lo ammettiamo, non siamo in grado di realizzare uno spettacolo che rinverdisca i fasti dei “dieci milioni a serata moltiplicato per cinque” perché la televisione, ebbene sì, non l’abbiamo mai fatta e quindi per quest’anno non manderemo in onda Miss Italia. Invece la presidente della Rai Anna Maria Tarantola (già Banca d’Italia) ha parlato di scelta editoriale, non in linea con i valori e i principi del mulino bianco. A ruota, la presidente della Camera Laura Boldrini ha colto l’occasione per sottolineare la mortificante condizione della donna, anzi della Donna, anzi della DONNA IN TV. Nel frattempo il direttore generale della Rai Gubitosi (già Fiat e Wind) ha parlato di format desueto (format? Quale format? Le ragazze in costume che sfilano sono un format?) e a poco a poco la polemica è salita di tono. Fiato alle trombe Turchetti: la figlia di Mirigliani, Fiorello, Mentana, i passanti, chiunque. Improvvisamente, dopo decenni di costume, il problema del vostro paese è un concorso di bellezza. Ok. Segue dibattito eterno, in differita anzi, peggio, alla moviola, e che come al solito in Italia arriva fuori tempo massimo, quando a) non gliene importa più a nessuno e b) vogliamo parlare delle conduttrici del daytime della Rai? Poi, come al solito, dopo le paginate di Repubblica, non se ne è più discusso – la decadance imperante – e, come se niente fosse: “Bravi voi di Raiuno che avete sostituito Miss Italia con Jovanotti”.
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Oggi parte, più o meno in sordina, la nuova stagione televisiva italiana. Sarà un anno lunghissimo, in continuità sostanziale con gli ultimi anni. Raiuno leader e Canale 5 che sembra avere riacquistato la memoria (“Ehi, ma io una volta ero una tv che contava qualcosa!”), Raitre con qualche sprazzo di vivacità (a patto di mandare in onda programmi compiuti e non ipotesi, asterischi, cancelletti, Lia Celi), intanto la7 continerà a parlare parlare parlare e Sky godrà ancora dei favori-a-prescindere di una stampa pigra (ci si mette pure Napolitano “grazie Sky che avete contribuito al pluralismo”). E poi c’è quello che è stato impropriamente definito il “format dei politici che squattano h24 ogni studio televisivo”. L’talia ormai si è abituata, e continua a guardarli in attesa che accada qualcosa. Finché dura, avanti tutta: costano poco e rendono di conseguenza. C’è solo una barriera che ancora non è caduta ma è ormai solo questione di tempo. Un politico conduttore di un bel programma di infotainment, magari nel pomeriggio, o al limite in seconda serata. Un nome io ce l’avrei. È una donna.
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Supetele 1: Che tempo che fa del lunedì, Rockeconomy, Volo in diretta
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