martedì 15 ottobre 2013

TuttoFaMedia

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The Walking Dead 4×01: 30 days without an accident

Posted: 15 Oct 2013 07:52 AM PDT

In questo momento sono tre gli show più visti della tv americana, network e cable mescolati: NCIS, The Big Bang Theory e The Walking Dead. Trova l’intruso. O gli intrusi.

 

Considerando il cable. E considerando la curva che parte dal pilot della prima stagione e si issa lassù fino al risultato mostruoso del primo episodio della quarta stagione (16 milioni e spicci e 8.2 di rating), quello che sta facendo The Walking Dead, adesso negli anni dieci, non è normale. E il bello è che non è ancora finita. Pensa a tutta la gente che ha sempre snobbato ‘sti quattro zombie sfigati e prima o poi sentirà sulla propria pelle quella cosa chiamata esclusione: quanto tempo ancora posso far finta di niente?

 

 

Michonne

 

 

 

Giudicare un prodotto dai numeri che fa: sì, no, non so, non risponde. Girls ha superato solo una volta (su 20) il milione di spettatori, Treme ha segnato il suo picco negativo di 0.47 milioni proprio nel terzo season finale (not cool). D’accordo, non vale: it’s not tv, it’s Hbo. E allora parliamo di Amc, something more. Alzi la mano chi non ha provato un brivido di malessere all’esplosione pazzesca dell’audience di Breaking Bad. Qui si era in quattro gatti e si finisce in tutti: chi è tutta questa gente, che cazzo vuole?

 

Vince Gilligan dice che il merito è di Netflix, che ha sbloccato una sete, anzi una fame che gli americani covavano ma non riuscivano a scaricare. Giusto ieri Tony Hopkins (lui si firma così), ha ammesso di aver binge-watched Breaking Bad in un boccone e poi, alla fine, ha scritto una lettera a Bryan Cranston per dirgli bravo, grazie (tenerezza) (soprattutto: quello che tutti noi vorremmo fare al termine di un’abbuffata di serie tv: scrivere ai nostri heroini). Ma i motivi che si celano dietro un successo sono sempre molteplici e spesso incomprensibili.

 

The Walking Dead va in onda sul cable ma non ha niente del cable. Almeno del cable che piace a noi. Non ha la raffinatezza e lo spessore di Mad Men e Breaking Bad, non spicca per scrittura, personaggi, regia, fotografia, nomi, cose e città. Hai tre secondi: dimmi i nomi esatti di almeno cinque attori che recitano in The Walking Dead e abbinali ai personaggi. Vedi? Tipo i dischi di Alessandra Amoroso, li ascolti ma i titoli delle canzoni mica li sai. Certo, c’è Andrew Lincoln, ma la sua monoespressione “Sono un bravo cristiano, c’ho avuto i traumi e ora tengo il broncetto” potrebbe tranquillamente stare su A&E o Showtime e nessuno avrebbe niente da ridire (mica come Giancarlo Esposito o Dean Norris che li vedi in Revolution o Under the Dome e ti viene voglia di lanciare su Repubblica una petizione a sei mani con Concita de Gregorio e Saviano per “fermare quest’orrore”).

 

The Walking Dead non innova, non stupisce, non ti porta dove non sei stato mai. Grattando via gli elementi esteriori (la nobile filiazione, il tema sempre caldo degli zombie, il bisogno di comunità), rimane una serie discutibile. Ha cambiato più showrunner che set, rinunciando a ogni legittimazione autoriale e a ogni presa sul serio.  Causa o effetto non si sa, non è mai riuscita a mantenere una costanza qualitativa (episodi decisamente riusciti e altri in cui non fai che pensare alla lista della spesa che devi fare domani), bruciando molto materiale narrativo in poco tempo per poi azionare il pilota automatico del solito schema: andiamo a cercare rifornimenti, se non torniamo vuol dire che ciao, è stato bello.

 

Anche accettando che al palato semplice non gli puoi mica dare caviale, The Walking Dead continua a muoversi sapendo che tutto era già scritto nel pilot, ma nel modo più calamitoso possibile: sopravvivenza e stop. Finirà mai (yawn) questa storia? E il debutto farraginoso della quarta stagione conferma tutte le perplessità maturate in questi anni: si punta sul destino di due personaggi che non interessano a nessuno (il tempo del racconto è quello che è) e quindi anche i ricaschi sui nostri ne risultano per il momento depotenziati. Viene a mancare, come spesso in TWD, il drama, quello vero, quello che ti fa dire: ehi, in questo momento non vorrei essere con nessun altra serie del mondo. Così, alla fine di ’30 days whithout an accident’, le due cose più interessanti da conservare nel giardino dei ricordi seriali sono: il figlio di Rick che finalmente ha cambiato voce e Carol che insegna ai bambini i primi rudimenti esistenziali (quando si dice una serie educativa):

 

 

Carol

 

 

Un po’ pochino, ma quanto basta per dire, almeno per il momento: hanno ragione loro. Specie considerando che ancora non è andato in onda el Clásico Governor vs Michonne e che sotto la coperta qualcosa si muove. Coraggio, qua c’è gente che vuole cambiare idea come voi cambiate gli showrunner. 

 

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A proposito di binge-watching e abbuffate di serie tv

 

 

Sei mesi senza smartphone, volendo

Posted: 15 Oct 2013 02:39 AM PDT

Tre giorni fa TFM ha compiuto 8 anni. Vorrei tanto prendere dallo scaffale  il faldone

 

 

ROBUSTE CONSIDERAZIONI SU COME NEL FRATTEMPO SIA CAMBIATA LA BLOGOSFERA ITALIANA

 

 

e in particolare la carpetta “Voi forse non lo sapete ma fate le stesse cose che noi facevamo nel 2005, solo che le fate su facebook (o su twitter) (o su blogspot) (mio dio) e questo mi getta in uno stato di cupa cupezza che nemmeno provo a spiegarvi”, ma suonerebbe, come dire, un tantino pretenzioso da parte mia mettermi, mo’, a fare la ramanzina (anche se mi riescono molto bene, le ramanzine) (e anche se molta gente se la meriterebbe eccome: qualcuno, se non erro il mio maestro Maurizio Costanzo, diceva che per fare tv bisogna avere la patente, figuriamoci per scriverne) (non basta scrivere di tv per saper scrivere di tv) (a volte mi lascio abitare dalla tua insipienza, tua che scrivi di tv sui blog italiani, e ho la prova provata che l’umanità ha fallito) (no, non era Costanzo, ma gli piaceva molto quella citazione) (anche a me)

 

d’altrocanto una volta questo blog si occupava anche d’altro, per esempio si metteva a fare delle belle sane polemiche, o si lasciava andare a vita diciamo un po’ vissuta un po’ no (una volta una ragazza scrisse un commento del tipo: “Ma come! Io mi pareva che tutto quello che scrivevi ti succedeva veramente parola per parola!” e io le risposi “Ma certo che succede tutto parola per parola, solo che in mezzo ci metto altre parole crittografate che i più bravi riescono a capire e tu, evidentemente, no, quindi fuori da questo blog, adesso”).

 

 

Estate

Venne l’estate

 

 

 

 

Otto anni e sentirli tutti, per esempio 23 settimane fa. Anzi no, salto più indietro. Qualche anno fa, un giorno, esco di casa e vado in un negozio DELLA TRE e mi compro un iPhone (siamo nella preistoria dei tempi, ti è concesso sorridere, o anche partecipare del mio dramma emotivo, te ne sarei grato), anzi: un iPhone 3GS, mica la luna, solo il top di gamma. In mezzo un sacco di cose belle ma anche di soldi gettati dalla finestra (l’abbonamento DELLA TRE, avevo un abbonamento DELLA TRE), e di burocrazia transalpina a se stessa che non la auguro a nessuno, soprattutto a te che tra poco dovrai scegliere tra Matte, Little Angelo e Prolasso Crimi, insomma quasi sei mesi fa, quando già da mo’ avevo disdetto l’abbonamento DELLA TRE (“Ma è sicuro signore? Le proponiamo un altro pacchetto più vantaggioso” “Signorina, forse non ha capito, ho cambiato NAZIONE EUROPEA solo per non aver più a che fare COLLA TRE”), insomma a un certo punto l’iPhone 3GS comincia a dissolversi pezzo pezzo sotto i miei occhi, una cosa davvero mostruosa a metà tra Inception ed Eternal Sunshine. Obsolescenza programmata, la chiamano. Niente più aggiornamenti di sistemi operativi, applicazioni che si levano da mezzo come a farmi un favore, cose così. Ma il telefono, il TELEFONO, funziona ancora, il telefono, quella cosa per chiamare la gente e dire Ciao, come stai?

 

 

inception

 Cose che mi danno sui nervi

 

 

Chi mi conosce dal vivo a questo punto dirà ‘Chiaro, sei una persona che fa le cose per principio, so già come va a finire questo post’. No, non è che faccio le cose per principio, è che uno) sono siciliano (dicono c’entri qualcosa, ma io non sono più così convinto di questa cosa che ‘sei siciliano’) e due) non ho capito perché dovrei buttare una cosa che, tecnicamente, funziona ancora, sol perché qualcuno ha deciso, anzi no, sol perché qualcuno è un pezzo di merda. Ecco. La mia amica Giusy aveva il mio stesso problema (“Una mattina ho scoperto che non mi funzionava più Whatsapp: VOLEVO MORIRE”) e qualche tempo fa, mentre eravamo a mangiare giapponese in uno di quei ‘giapponesi fatto dai cinesi’ di rue Saint-Anne, mi ha detto che lei è andata da un suo amico in provincia di Vibo Valentia, uno smanettone che tu ci vai, gli lasci il telefono e poi te ne vai senza SAPERE NIENTE (“Come Olivia Pope con Huck?” “Eh, tipo”) e poi torni ed è tutto risolto, il tuo iPhone 3GS adesso è 5 e forse già 7. Solo che Vibo Valentia è lontana, figurati la provincia di Vibo Valentia. Bon, la domanda è: si può stare sei mesi senza smartphone pur avendolo, lo smartphone?

 

Banalmente: i primi giorni sono un massacro, una cosa simile alla morte per consunzione, tipo che ti hanno rinchiuso in una stanza due metri per due e per compagnia hai solo un best of degli U2 e un rubinetto che perde. Lentamente. Vai in giro, vedi gente, incontri popstar e mangi cose che vorresti non dico fotografare e condividere ma proprio che qualcuno ci mettesse tanti LIKE che batti il record dei like (c’è chi lo tiene) (c’è anche chi si mette i like da solo) (che non è come darsi all’autoerotismo) (l’autoerotismo, almeno, è NATURA) (e comunque, io, incontro un sacco di popstars). Ma non puoi farlo, e non puoi farci niente (il rubinetto, lo senti?). Poi, seconda fase, sopraggiungono i ricordi, tipo, ma che fine avrà fatto quella persona che non ho mai conosciuto in vita mia ma con cui ci mettevamo un sacco di cuoricini a vicenda su instagram, cioè, chissà che starà facendo in questo momento, quali foto starà filtrando col filtro VALENCIA. Infine, facile, non ci pensi più, e torni a fare le cose che facevi sempre, al telefono le telefonate, e al computer gli streaming con quei buffi pop-up pieni di cougar ciccione e colla faccia da porca sbavata e colla fica di fuori.

 

Poi però scopri che, in tua assenza, mentre non c’eri ma in qualche modo evidentemente c’eri (il che getta una luce di sbieco sul destino di TUTTO QUESTO quando saremo, ehm, TRAPASSATI), la gente su instagram non aveva mai smesso di continuare a seguirti, a mettere like, insomma a FARE COSE di cui eri all’oscuro, alle tue spalle (bufferie social: su Twitter se non twitti venti cagate al giorno perdi subito dei followers, su Facebook è meno pavloviano ma insomma se parti un mese in vacanza al tuo ritorno è un po’ un campo di battaglia) (su Instagram no: la gente su Instagram è felice).

 

Tre giorni fa TFM ha compiuto otto anni e sotto l’albero ha trovato un biglietto con su scritto ‘Bentornato nel mondo degli smartphone’, e poi, già che c’era (lo stesso giorno! il dodici ottobre!) una connessione Internet finalmente stabile dopo settimane in cui sì, il mondo gli era parso col respiro mozzato (senza smartphone e senza internet, tutto assieme?) (e vai dai pachistani!) (ehm: abito in una città, che pure è grossa, ma che non prevede pachistani che affittano l’Internet, e se ci sono io non ci voglio mettere piede, mai). Ma questa della connessione che avevo perso è un’altra storia e magari ve la conto più avanti. Intanto, direi che TFM is back. Sono sempre i migliori, quelli che tornano.

 

 

Happy Ron

 

 

 

Prendi l’arte e mettila su una bancarella al Central Park

Posted: 15 Oct 2013 12:37 AM PDT

Bansky

 

 

Banksy, che nessuno a chi sia veramente, è a New York. L’altro giorno ha piazzato una bancarella al Central Park con alcune sue tele originali e firmate 100% Banksy. Dietro la bancarella, un vecchio signore (forse proprio Banksy), non esattamente animato dal sacro fuoco della compravendita, e le tele in bella mostra a 60$ l’una.

 

Si parte alle undici del mattino e si arriva alle 18 con un incasso di 420$ totali. In mezzo, una madre che compra due piccole tele per i propri figli contrattando uno sconto del 50% e un uomo di Chicago che la dice definitiva: “I just need something for the walls”

 

 

 

 

(Nanni Loy era più bravo)

 

 

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