mercoledì 6 novembre 2013
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La seconda edizione di Pechino Express: credevamo di correre verso Bangkok Posted: 06 Nov 2013 08:53 AM PST
Ormai non è più ‘Anna Oxa che sbrocca a Ballando’ ma ‘No vabbè, non puoi capire, c’è Anna Oxa che sbrocca a Ballando’. Il consumo è cambiato, la barca prende acqua da tutti i lati e bisogna adeguarsi. Attori e Spettatori hanno trovato come darsi mutuo soccorso in quella che non è più una prospettiva frontale ma definitivamente laterale. Il secondo grado è legge, la visione si è fatta décalée. E tu, che prendi tutto così sul serio, non puoi più farci niente. Persino il linguaggio generalista, il più naïf che ci sia, cede alla lusinga dell’autodestrutturazione, cercando di acchiappare un consenso peraltro situato fuori da quel recinto che ha già visto scappare i buoi. Ma se il controcanto delle minoranze satura lo spazio interpretativo delle maggioranze, abituate ad altri codici, cosa rimane di questo clash?
Pechino Express è un adventure show. Una gara tra coppie di concorrenti che corrono, fanno l’autostop e dormono accampati, per arrivare primi. E intanto fanno cose, si raccontano. Agonismo, ma anche, e soprattutto, derisione. La seconda edizione italiana del format ha optato infatti per una messa in scena scardinata. Accetto le regole ma le prendo in giro. Partecipo, voglio vincere, ma intanto prendo le distanze da tutto, a cominciare da me stesso. Conduttore, protagonisti, comparse: il racconto viene tagliato in modo da escludere chi non sta al gioco. Stai con noi, ridi con noi, scherza con noi, altrimenti vattene, c’è sempre la fiction di Raiuno che ti aspetta.
Contrariamente al suo neutrale precedessore, Costantino della Gherardesca è uno di quei conduttori che si pone al di sopra degli Spettatori e dei Concorrenti. Un Giudice, nel vero senso del termine. Ogni parola, ogni commento, ogni chiosa corrisponde a una sanzione, mai definitiva, ma che si esaurisce nell’arco di un blocco, e il cui obiettivo finale è ammiccare a un pubblico che si spera condivida gli stessi meccanismi valoriali. Sia quando riporta al proprio posto questo o quel concorrente, sia quando annuncia solennemente quante vite ti sono ancora rimaste, il conduttore in realtà sta dialogando con il proprio avatar, impegnato live sui social network dell’altro universo in una incessante smantellazione e ricostruzione di senso: frame tolti da un contesto e ributtati in mare aperto come ami cui far abboccare i seguaci. L’esito è un virale entra/esci identitario da uno schermo all’altro, ma sempre ben immerso in quello che molti ritengono l’inevitabile spirito dei tempi. Almeno, uno dei tanti.
La Mantide, la Marchesa, il Maggiordomo, i perfidi Fratelli. Un format ha bisogno di maschere da cui farsi possedere, per esistere nel più irripetibile dei modi. Un personaggio non è mai come un altro, o almeno così dovrebbe essere. Ma il successo di un’idea sta, ormai e innanzitutto, nel trovare immediata incarnazione in una riconoscibilità, una qualsiasi. Non c’è più tempo per cambiare prospettiva, la prospettiva è una sola. Hai tre secondi per conquistare lo spettatore/viandante, in cambio avrai fedeltà assoluta: ecco qua, tieni questa gente, retwittala, è tutta tua. Ok?
Problema. Un personaggio è tale se si evolve, se può attingere a tutte le frecce del proprio arco narrativo. Altrimenti, meglio rimanga schizzo su carta, pura macchietta di colore e null’altro. Oppure, sperare che esca subito, alla fine di una puntata, rullo di tamburi, eliminatoria. Pechino Express 2 ha scelto di non risolvere completamente la questione, facendo il grosso del lavoro all’inizio e poi lasciando fare al pilota automatico. Una sorta di sazietà prima di mettersi a tavola, di consapevolezza che, con questi concorrenti, ‘abbiamo trovato la quadra’: quando ricapita un’annata così fortunata?
Poi però ci sono le variabili: la lunghezza spropositata di ogni puntata, l’isterica programmazione (se qualcuno avesse deciso volontariamente di nuocere al programma non avrebbe saputo far di meglio), la gara sacrificata nel nome di altre urgenze. Le dinamiche a un certo punto si sono rivelate statiche. Credevamo di correre verso Bangkok e invece stavamo invano aspettando che Gregory ci servisse la cena dopo il gustoso antipasto. I Cattivi sono rimasti tali, il viaggio degli eroi e delle eroine si è spento per strada e a nulla è valso un battito di mani sotto la pioggia per eguagliare la folgorante bellezza di altri epici controcampi. Cose che succedono, non c’è bisogno di aprire la busta. Game over.
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Pechino Express, commedia e buoni sentimenti
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