martedì 31 dicembre 2013
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Parigi Palermo e ritorno, sempre ritorno Posted: 31 Dec 2013 03:02 AM PST Sto salendo le scale di Porte Maillot, direzione pulmino Ryanair, sulle spalle uno zaino, nella mano una valigia leggera, questione di un attimo, in questi casi, è tutto quel che hai, prontezza di riflessi, indignazione proporzionata alla faccia tosta di quel che sta succedendo: sento il mio portafogli muoversi di vita propria, una specie di colpo da maestro tra il tutto e il vuoto, proprio adesso, altra tacca alla voce “ma che anno di merda, veramente”. La mano, la mia, schiaffeggia l’insolenza, il portafogli torna dov’era. Mi volto, gli occhi iniettati di MACHECAZZO. Un furfantello alto un metro e un tappo, forse nemmeno maggiorenne, mi guarda, a pochi centimetri di distanza, ci siamo solo noi su queste scale, sospensione nel vuoto, con una manata potrei spingerlo all’indietro e andarmene, ne avrei tutte le ragioni, lui mi anticipa: “Scusi, sa mica dov’è la metro?”. Non male, non c’è che dire. Tecnica dello spiazzamento al cubo. La classe, quoi. Tra un wtf (noi SIAMO, nella metro) e un altro (è la prima volta in vita mia, tutta la vita mia, e dire che quattro quinti li ho passati in quel pozzo chiamato mezzogiorno, insomma che qualcuno osa provare a rapinarmi, a me, così), mi ripiglio e mi torna in mente che sono qui per un motivo ben preciso, dunque sorrido e lo liquido come si fa in questi casi: TU TE FOUS D’MA GUEULE? MA VA SCASSACI LA MINCHIA AL LARGO. Parigi Palermo: buon viaggio.
Sono nell’ingresso di questa casa, grande come tutte le ultime quattro case in cui ho vissuto. Casa mia, casa dei miei. Sto per uscire. Mio padre e mia madre mi guardano come se non mi avessero davvero mai visto. Ho appena chiesto come si arriva a Via Terrasanta: “Non me lo ricordo”. “Ma come non te lo ricordi, ma che dici”. Sì, non me lo ricordo, che vogliamo fare? Sempre così, i primi giorni qua. Non ricordo niente. Si chiama processo di rimozione? Non lo so, il problema è che poi bastano tre secondi per ricordare, tutto. Ma le strade, da quanto non guido a Palermo? Una domanda semplice, loro iniziano a spiegare, prendi di qua, gira di là, mio padre mi consiglia una scorciatoia (“C’è bordello ‘sti giorni per le strade”) (“Papà, c’è sempre bordello ‘sti giorni’ a Palermo”) (mia madre alla parola ‘bordello’ inarca il sopracciglio in modo impercettibile, quel modo, quel modo, il processo di rimozione, tre secondi, netti): Ok, mi arrangio.
Imparare a guidare nella città di Palermo significa aggiungere altri etti di ego a quella cosa che risponde al nome di presunzione (presunzione di conoscenza, presunzione di colpevolezza, presunzioni così). Se ce l’ho fatta qui, una volta, ventimila anni fa, cosa potrà mai stupirmi (furfantello di Porte Maillot, non voltarti dall’altra parte, sto parlando con te). E invece è sempre quella maestosa sensazione di panico sommata alla madeleine di tutto ciò. L’istruttore della scuola guida me lo disse appena misi piede in quella Fiat punto parcheggiata in seconda fila a Via Leonardo da Vinci: akkura a sinistra e akkura a destra, ca’ s’infilano di tutti i lati. Che, poi, detta così, non rende bene l’idea. Sei mai stato a Palermo? Vacci, o tornaci, prendi una macchina, e imbocca via Notarbartolo. A un certo punto, sulla destra, troverai un bar pasticceria abbastanza rinomato, Stancampiano. A questo punto, malgrado la via sia dritta, sarai costretto a girare a destra, circumnavigare una piazzetta in cui si specchia una sedicente stazione ferrroviaria, e poi reimmetterti sulla via principale. Manovra che sottrarrà alla tua vita una quarantina di minuti, traffico, macchine e clacson ca’ s’infilano di tutti i lati, ma almeno avrai compreso perfettamente, altro che mare pane e panelle, questa bella città che tanto piace a chi non ci ha mai vissuto due inverni impilati: un budello assurdo, illogico, inturciuniato, era così nell’85, è così adesso, sarà così per sempre. Manco le bombe.
Chiesi Via Terrasanta perché sto andando al cinema a vedere il film di Pif. L’ultima volta che andai al cinema a Palermo fu all’Aurora, che era l’unico che dava i film francesi (i manuali di epica ricordano uno chabrolissimo Grazie per la cioccolata), e ora sto per entrare al Gaudium. Il film di Pif. Sono le sei e mezza di pomeriggio, la sala coi velluti e coi balconi è molto piena malgrado il film sia uscito da tempo, le sedie sono scomode come non credevo che nessuna sedia di cinema potesse essere (“Smettila di fare paragoni con l’MK2 Bibliothèque”), i trailer dei film stranieri sono doppiati in italiano, scoppio a ridere, mi sento appena tornato da un viaggio interstellare con Sandra Bullock, ma veramente fate?, la gente è rumorosa: la gente nei cinema palermitani è rumorosa oltre ogni dire. Accanto a me una signora anziana, il cui compito nella vita, evidentemente, oltre che scassare la minchia a me, è spiegare ogni scena del film al marito, forse sordo, o semplicemente già morto e lei non lo sa o finge di non saperlo. A un certo punto, in una scena del film, squilla un telefono e la signora, sia benedetta signora mia, chiosa: “Miii sta squillando il telefono”. Mi viene voglia di abbracciarmela tutta e poi chiuderle la bocca con lo scotch dei traslochi.
Il film di Pif. O forse dovrei dire il filmino di Pif. Da qui, da dove sto scrivendo ora, un mese fa, mi prese la smania, da lontano, di vederlo subito, adesso, ieri. Un film che parla di come le vite di tutti noi a Palermo siano state segnate da quella roba-là. Irrimediabilmente. Un film che parla di me, dunque. Pierfrancesco Diliberto è più grande di me, ma questo film parla di me, anche di me. Questo lo sapevo, l’ho saputo e lo so, adesso che l’ho visto al Gaudium di Palermo. La chiave è quella giusta, il racconto laterale, il racconto naif, il bambino, la bambina, Boris Giuliano, il telecomando di Totò Riina, il sangue versato, Andreotti, il ridicolo, davvero: il tragico ridicolo di tutto ciò. Ma questo film, che parla di me, non è per me, e lo capisco alla seconda scena, o alla terza, lo capisco quando avverto la stanchezza della lunga prima parte, lo capisco di fronte alla tragica esilità della seconda. Non è per me la regia inesistente, una sceneggiatura piena di mancanze, le chiusure dilettanti di molte scene, la commediola degli equivoci che a un certo punto, ma perché?, prende il sopravvento. Poi, certo, ci sono quei muretti scavalcati, ci sono quelle urla scandite, c’è il filtro sepia alle lacrime asciugate, ci sono io che alla fine sono un colabrodo di emozioni immiscate col niente. Ecco. Sui titoli di coda una signora, riferendosi credo a tutta la gente morta che il film ha appena compilato, sospira: “Mischini”, e la sua amica, mentre indossa il cappotto: “Certo, un bellissimo riassunto della memoria”. Le guardo, le riguardo, vorrei poter esprimere quello che mi passa per la testa adesso (“Vi odio”), e invece mi ritrovo a camminare tra le strade vicino al cinema, strade senza macchine parcheggiate, solo una, della polizia.
Sono assorto, la mano sul mento. Le luci fuori dal finestrino si avvicinano sempre di più, questo paesone chiamato Beauvais, all’improvviso mi rimbalzano i pensieri nella testa, letteralmente, e il buio viene squarciato da un urlo, tante urla: l’aereo, questo aereo che mi sta riportando a casa, ha deciso che gli ultimi metri che lo separavano dal suolo era meglio farli tutti in una volta, alla faccia del volo a planare. L’aereo praticamente cade su se stesso, come quando salti da un muretto e le una lama ti sega le ginocchia, questa cosa con le ali finte comincia a frenare fortissimo, stiamo per sbattere fronti e speranze, ma poi ci fermiamo, un attimo di nulla, le luci si accendono e parte la rivolta, i vespri siciliani, quoi. I passeggeri si alzano e iniziano a inveire contro tutto e tutti, le hostess si nascondono nei bagni, un uomo urla MALEDETTI FARABUTTI STAVAMO MORENDO, intanto parte l’entusiastica trombetta Ryanair, dal fondo si leva un didascalico FICCATILLA ‘NTOCULO, la protesta sale di tono, con tutta la rabbia che solo un pericolo di morte presunta ma comunque scampata ti fa provare, il mio vicino di posto, fino a qualche minuto fa assorto nel libro di un filosofo tedesco mi guarda e, parlando a se stesso, dice “Miii che scanto”, i pochi francesi, forse per la prima volta in vita loro, sorridono, e va bene, archivieranno tutto questo alla voce folklore, penseranno che ne è davvero valsa la pena, il sole e i 20 gradi fissi, il pesce pescato e mangiato, e mentre rientreranno in città io penserò che dai, anche questo ritorno è andato, che ho fatto un selfie con i miei genitori (“Ma ci entriamo?” “Sì sì, venite qua, stringiamoci forte forte”), e che per altri tempi, oltre il tango, dentro i magazzini vuoti, proverò, come sempre, a non pensarci più.
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Special thanks to: Greta Gerwig, una scena di quel film di Rohmer, il cantautore Di Martino, The Broken circle breakdown.
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