venerdì 11 gennaio 2013

TuttoFaMedia

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Santoro e Berlusconi, une liaison pornographique

Posted: 11 Jan 2013 08:10 AM PST

“Una sfida, per essere tale, deve apparire definitiva”

 

“Io penso che gli italiani, a questo punto, abbiano maturato sufficienti esperienze per poter prendere le loro decisioni e quindi non abbiano bisogno di un torero che debba ammazzare il toro, e in questo modo, ancora una volta, liberarsi delle loro responsabilità

 

 

Questi due concetti semplici semplici, espressi in apertura di Servizio Pubblico da Michele Santoro, hanno subito mostrato il tono e l’indirizzo che avrebbe preso il programma. Se molti commentatori, seri e non, le avessero ascoltate con attenzione, non avremmo oggi la solita, acidula somma di lamenti, indignazioni, accuse. Ma molti commentatori, seri e non, non le hanno ascoltate con attenzione, perché, come al solito, volevano da Santoro qualcosa che Santoro mai gli ha dato e mai gli darà. Santoro e i suoi hanno riattivato Berlusconi. Lo hanno reso simpatico stando al suo gioco. Santoro vuole solo far parlare di sè, come Berlusconi d’altronde. Santoro non ha fatto il suo mestiere, non è stato un buon giornalista. Ah sì?

 

 

 

 

 

Ieri, prima della trasmissione, Tvblog rilanciava un appello ai giornalisti di Servizio Pubblico affinché non sprecassero questa occasione, affinché si comportassero da giornalisti seri e credibili, facendo la prima ma anche la seconda domanda, inchiodando Berlusconi ai fatti e solo a quelli, e via dicendo. Un appello condivisibile in tutto e per tutto, ma lanciato all’indirizzo che più sbagliato non si può. Primo perché non esiste alcun giornalista di Servizio Pubblico, piuttosto Santoro e i suoi giornalisti in tv, che sono una sua perfetta emanazione, un’unica entità che orchestra nei minimi dettagli messa in scena e discorso. Secondo perché Santoro non è la BBC e nemmeno un giornalista asettico disposto a fare la bella statuina, a mettere in secondo piano se stesso. La parodia-ma-non-troppo della par condicio, affidata a Sandro Ruotolo, ne è lampante dimostrazione. Santoro è fuoco e viscere, è urla e sfottò, è vendetta e talento, arena e circo. Santoro è della stessa pasta di Lerner e Annunziata, ma, a differenza di questi ultimi, si sente investito di una missione salvifica. Pensa di essere il tramite, il messaggero del popolo (“e altri centomila”). È di parte, spudoratamente, nell’unico modo che gli serve per fare televisione come la fa da una trentina d’anni: il conflitto totale. Santoro non è un giornalista come gli altri, e per questo non possiamo avere da lui quel che potremmo avere da altri (ma chi sono poi questi altri?). Santoro è una cosa assurda come assurdo è tutto il sistema televisivo italiano, e come assurdo è l’impasto tra media e politica che solo in Italia può dare esiti come quello di ieri sera (33% e nove milioni di spettatori tradizionali, più tutti gli altri sparsi per la Rete).

 

Il match, finito a pari e patta, non è andato come molti avrebbero voluto (una specie redde rationem infernale stile Il Caimano) anche perché le condizioni che hanno reso possibile e necessario questo match, avevano già provveduto a depotenziarlo, prima. Si scontravano due eccezionali animali da palcoscenico, due personalità molto simili (che però non arriveranno mai a capirsi: uno citava il programma televisivo Zelig, l’altro intendeva il film di Woody Allen) e che, nell’arco della loro pluridecennale liaison pornographique, avevano sempre tratto reciproco beneficio dall’absentia dell’altro. Non solo. Quando a un certo punto Santoro si è lasciato scappare “Questo non era negli accordi” ha svelato una verità lapalissiana (alle verginelle che hanno fatto un balzo sulla sedia e ancora oggi agitano il ditino: vi invidio moltissimo, vorrei vivere anche solo cinque minuti nel vostro mondo ingenuo e felice). Qualsiasi personalità pubblica controversa, quando va in televisione, non lo fa certo senza rete di protezione o di salvataggio. L’utopia della libertà totale e assoluta, specie in esposizioni così scoperte, è, appunto, un’utopia. Mediazioni tra gli staff, compromessi, concessioni reciproche: talmente ovvio e banale che ci si annoia solo a ribadirlo. Santoro è quello de Il Raggio Verde, di Annozero, delle puntate evento su Dell’Utri e la mafia, su D’Addario e su Ruby. Se non avesse ceduto su qualcosa (la questione morale, per esempio, è stata completamente ignorata) Berlusconi non sarebbe andato. Ma Santoro voleva a tutti i costi Berlusconi. Perché?

 

Due donne, giornaliste, antiberlusconiane, serie, preparate, sue fidate collaboratrici da anni. Stop. Questo il contraddittorio scelto da Santoro, che peraltro marcava a uomo l’ospite Berlusconi, persino incombendo alle sue spalle durante i filmati. Un processo mascherato da cottura a fuoco lento, un lavoro ai fianchi che non aveva come obiettivo lo sbrocco (i patti erano chiari) ma la chiusura di un cerchio. A voler analizzare la scrittura del programma, la sua costruzione, i moduli giustapposti in puro stile santoriano, appaiono nitide le premesse e lo svolgimento: il Paese è allo sfascio, noi, unici tra tutti i talk show, lo raccontiamo da anni e, ora che abbiamo in studio quello che crediamo essere il responsabile di tutto questo, gli presentiamo il conto, anche se niente di quel che può dire o fare cambierà la situazione. Cosa che è puntualmente avvenuta, con Innocenzi, Costamagna e Travaglio. Certo, poteva essere meglio, o peggio, a seconda dei punti di vista, ma l’impegno era di non trascendere, da ambo le parti. La frottola che Berlusconi sia uscito vincente assomiglia tanto alle reazioni di difensiva ilarità che hanno alcuni di noi quando vedono certi film dell’orrore. Negazione della finzione accettata come realtà in un caso, negazione della realtà che si tramuta in finzione nel nostro. Berlusconi, coi suoi silenzi, con le sue ammissioni (“E si vede che mi ricordavo male” “E che ci volete fare, sono nonno per la settima volta”) e con le sue discutibili scenette non ha vinto proprio niente. Ma, è vero, nemmeno ha perso. D’altronde, cos’ha ancora da perdere Berlusconi?

 

L’idea che mi sono fatto di Berlusconi in tutta la vita mia, da quando soffiò Donadoni alla Juventus ai cartelloni pubblicitari misteriosi che apparvero una mattina del ’94 a Palermo, fino a questa ennesima resurrezione, è semplice: sono convinto che Berlusconi pensi veramente di essere un uomo buono e giusto, un uomo che si è fatto da sé e che ha fatto tanto bene al prossimo suo. Il punto non è se ha commesso o non ha commesso certe azioni discutibili. Non più. Se pure le ha fatte, vi è stato costretto, dalle situazioni, dai contesti, per pura difesa. Il punto è che lui, in quanto uomo buono e giusto, non può tollerare in alcun modo la macchia indelebile di una condanna definitiva in terzo grado, quale che sia. Proprio per il bene che ha fatto – e ne ha fatto, eccome – vuole lasciare di sè un’immagine pulita, almeno formalmente. Ecco cosa ha da perdere Berlusconi. Nel 1994 come nel 2013.

 

Ma se prima, imprenditore di enorme successo lanciato a folle velocità verso i libri di storia, aveva le energie e la voglia di celare questo obiettivo personalissimo dietro propositi più nobili (“Lo faccio per il mio Paese”), adesso invece non gliene importa veramente più niente, vuole solo essere rieletto in Parlamento, e provare a guadagnare ancora un po’ di tempo. Basti osservare l’incoerenza di questa campagna elettorale, la stanchezza da pugile suonato di fronte a un insolitamente aggressivo Bruno Vespa, il corpo inerme offerto persino a una Giulia Innocenzi che in altri tempi si sarebbe mangiato in tre secondi netti. Berlusconi non vuole fare il presidente del Consiglio, l’ha detto lui stesso, confermando (oggi) i nostri sospetti (di ieri). E dentro di sé forse non vuole fare nemmeno il ministro. Berlusconi ieri sera era sereno e divertito come non lo è stato mai, e lo era proprio perché mancava una vera posta in gioco. Ecco perché Servizio Pubblico ha finito per assumere questa strana forma di “intrattenimento a tratti spassoso con finale in regolamento di conti”. Berlusconi, e noi con lui, sa che perderà, sa che i destini si stanno giocando altrove e che quello di ieri è stato, tutto sommato, un epilogo non necessario a un libro che in realtà è già stato scritto.

 

 

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